alessandra

l’amore in una caramella

Alessandra Cavazza, medico pediatra della nostra parrocchia, racconta la sua esperienza di volontariato tra i bambini nell’orfanotrofio ad Areka in Etiopia. Ci avviciniamo a celebrare il bambino Gesù e questa esperienza breve ma esplosiva di affetto ci racconta di bambini nei quali riconosciamo Dio che si è fatto carne… specialmente quella fragile di un bambino.

Questo novembre (2016) son partita per un’esperienza in Etiopia, in un orfanatrofio del “Centro Aiuti Per l’Etiopia”, onlus con sede in Italia e che opera a sostegno dei bambini in quel poverissimo paese africano.

E’ stato un soggiorno piuttosto breve, ma ha lasciato in me un segno profondo. L’Etiopia infatti pur essendo a sole 5 ore di volo da Milano, è un paese estremamente povero e arretrato dal punto di vista della società civile, specialmente nei servizi scolastici e sanitari. Anche nel settore dell’agricoltura si può osservare una grande arretratezza rispetto ai nostri standard occidentali, i campi sono ancora arati a mano con i buoi, il raccolto è fatto col falcetto come 2000 anni fa.

Manca l’acqua corrente, l’elettricità è presente a tratti, la comunicazione corre veloce con i cellulari, che tutti hanno, ma la televisione, spesso presente solo nei locali pubblici, trasmette immagini di un mondo surreale, lontano da loro… che non li riguarda direttamente.

asinoLe città sono prevalentemente fatte di edifici a più piani, con gli ultimi non ancora terminati, e con i piani superiori ancora vuoti e ai loro piedi una miriade di baracche affastellate una sull’altra con bancarelle di ogni ben di Dio.

Allontanandosi dalla capitale Addis Abeba, con il suo caos, le polveri, lo smog, il frastuono del traffico impazzito, tipico delle città del terzo mondo, ci si inoltra in campagna con ampi spazi liberi, enormi distese di Tef (cereale tipico dell’Etiopia), parecchi filari di strani alberi, dei quali non conosco il nome (alcuni molto imponenti e sicuramente antichi) e proseguendo verso il sud anche conifere perché siamo a 1800-2000 msl. Il cielo è limpido e l’aria fresca, spesso c’è un bel vento secco.

Percorro con un pick-up circa 350 km in 8 ore, tra buche clamorose nell’asfalto, ormai quasi inesistente e colonne di camion pieni di merce (non si sa bene cosa…) che fanno lo slalom tra la gente e gli asinelli stracarichi di fieno o di acqua.

Il mio viaggio vero però comincia dopo il mio ingresso nel villaggio “Giovanni Paolo II” di Areka, piccolo paese di campagna vicino alla città di Sodo.

dsc_0288E’ circondato da mura, è pulitissimo, diviso in due parti, la parte alta con edifici ad un piano, coloratissimi in stile colonico, circondati da vialetti in cemento e piccole aree verdi, la Chiesa rotonda come un grande tucul, e la parte scoscesa costellata di tanti bungalow col tetto di paglia per le famiglie adottive (quelle che vengono dall’Italia per il programma di adozione internazionale curato da questa Onlus), circondate da terreno completamente coltivato ad orto: cipolle, coste, carote, erbette, patate, piante di caffè e papaya.

Conosco Iruthi la donna capo villaggio che mi invita a fare un giro tra le stanze dei bambini. Sono più di 100 tra i grandi ed i piccoli, alcuni dei quali disabili e altri affetti da HIV.

Appena entro nella camera dei piccoli sono accolta da un vociare festoso e vedo subito tanti occhi brillanti e mani tese al cielo. Tutti vogliono venire in braccio, tutti vorrebbero una carezza ed un bacino. Se vedono un bianco, sanno che potrebbe capitargli di avere una vita diversa ed una famiglia. Scappo veloce, è un impatto forte e inatteso, non posso prendere nessuno perché farei del male a tutti gli esclusi.

dsc_0423Dalla mattina seguente decido di visitare tutti i piccoli ospiti, non solo per   redigere una scheda sanitaria, ma soprattutto per poter avere un rapporto diretto con ciascuno di loro, conoscendoli per nome e qualche volta cognome e per poter scoprire attraverso le cicatrici, le loro storie… A fine visita il premio è una caramella, l’unico dolce delizioso conosciuto da questi piccolini. Funziona! La caramella vince ogni ritrosia e così venire in ambulatorio è una festa!! Ognuno viene visitato, non perché sta male, ma perché ci si prende cura di lui. Il linguaggio dei gesti, un sorriso, un incoraggiamento, un piccolo abbraccio costituiscono un avvenimento speciale nella loro giornata. 

Quasi tutti hanno il raffreddore o la bronchite. Per loro infatti è la stagione secca e la mattina fa piuttosto freddo, (7-10° C ),  ma le tate li mettono fuori con le stesse magliette con cui passano il resto della giornata… I più fortunati hanno addosso una felpa, gli altri si abituano al freddo. Molti hanno timpani perforati, esito di otiti non curate. I maschietti hanno quasi tutti la testina rasata a zero, la tigna purtroppo impera e il rasoio per ora è il metodo più spiccio per ridurre la crescita dei funghi.

bambinoStanno in comunità e imparano così a condividere tutto, in primis il cucchiaio con cui mangiano le zuppe, per il resto ci si alimenta con le mani. Passano diverse ore nelle camere dentro ai lettini con le sponde, ma appena viene dato loro libertà scavalcano le sponde e si arrampicano ovunque, sui tavoli, sulle panche con un’agilità impressionante. Non hanno giocattoli e quei pochi a loro disposizione vengono distrutti rapidamente. I loro giochi preferiti sono i bastoni di eucalipto (pericolosissimi, perché se spezzati sono molto appuntiti) e fili di ferro, con cui i più grandicelli costruiscono dei finti occhiali.

Il giorno più duro, però, deve ancora venire per me. Ho visto quasi tutti i bimbi “normali”, ma restano i più difficili, i bambini disabili. Alemnesh, l’infermiera che mi aiuta, mi dice che i bimbi non si possono spostare in ambulatorio, quindi bisogna vederli nella loro stanza. Non c’è problema, dico, in due minuti prendo ciò che mi occorre e vado nella casetta accanto. La porta è aperta, ma l’odore all’interno della camerata è nauseante. Al primo colpo d’occhio ho una forte sensazione di disagio, vorrei scappare e non vedere. Ci si allontana sempre volentieri  da ciò che fa male agli occhi e al cuore.dsc_0182

Mi faccio coraggio e sfoggio il mio più bel sorriso e comincio ad imparare i nomi di ciascuno. Mi avvicino, li prendo in braccio, quasi tutti sono stesi sul tappeto perché paralizzati o spastici, provo a giocare: gli ho portato delle palle di gomma morbida colorata! Fantastiche!

Ognuno di loro se messo al centro dell’attenzione, si trasforma, lo sguardo gli si illumina e nello stupore  dell’abbraccio che gli offri, si aggrappa e  cerca e dona calore. E’ anche lui un bimbo, ancora più speciale, ancora più sfortunato, ancora più bisognoso … e provo dolore fisico, asciugo furtivamente due lacrime che mi rigano le guance… Non sono in grado di aiutarli… eppure loro sono quelli che hanno più bisogno di essere supportati, curati e soprattutto amati. Mi riprometto di fare, in un prossimo futuro, quello che mi sarà possibile! Potrei cominciare a cambiare il tappeto su cui trascorrono gran parte della giornata, a metterli sulle sedie a rotelle , a mangiare da soli, ad avere una tata per ciascuno, a riconquistare un pò di dignità umana… Gliel’ho promesso e cercherò di essere fedele.

L’esperienza dopo due settimane si conclude, veloce e intensa, carica degli incontri con i piccoli che con le loro mani alzate mi hanno catturato il corpo ma soprattutto il cuore.

Ciao bimbi di Areka .. tornerò.

alessandra-001Alessandra